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SOMMARIO del 134 • Auguri scomodi, di Tonino Bello |
EDITORIALE del numero 134
IMPEGNO PER LA VITA
Pasquale IANNAMORELLI
Mentre scrivo queste righe mi trovo immerso nel clima frenetico che induce tutti a ricordare chi non c’è più. “Ogn’anno, il due novembre, c’é l’usanza per i defunti andare al Cimitero. Ognuno l’adda fà chesta crianza; ognuno adda tené chistu penziero”. Così inizia la famosa poesia di Totò, “A livella”.
Dal laico nonviolento Aldo Capitini, oltre che, naturalmente, dalla mia cultura cristiana, ho imparato ad averlo ogni giorno, “chistu penziero” e non solo il due novembre. Ma vivendo la capitiniana “compresenza” con i defunti, sono assillato dall’interrogativo e dal dubbio se l’essere umano sia impegnato per la vita o per la morte.
Guardandoci intorno con un pizzico di sensibilità e attenzione, si constata con amarezza che l’uomo è più impegnato a procurarsi e procurare morte che non vita libera e gioiosa.
Mi viene da pensare alla legge sulla privatizzazione dell’acqua definitiva-mente approvata in questi giorni dal Parlamento italiano. O alla morte dei terreni e del mare (quella recente e inquietante scoperta di navi cariche di rifiuti tossici, affondate a due passi dalle coste della Calabria).
E poi la morte dell’aria, dei boschi, degli animali. Per non parlare delle guerre combattute con armi sempre più sofisticate e distruttive, anche se le chiamano “intelligenti”.
L’uomo è “un essere vivente” (Genesi 2,7), ma anche portatore di morte. La subisce, ma spesso la genera. Teme la propria morte, ma può approvare la morte dell’altro e causarla. Con il tempo, il “mestiere” dell’assassino si è terribilmente affinato. Basti pensare agli innumerevoli modi di applicazione della pena di morte. Per non parlare del “mestiere della guerra”! E poi l’impegno a promuovere morte per fame e, nello stesso tempo morte per superalimentazione. Sì, anche il cibo, un mezzo essenziale che Dio ha creato per conservare la vita, è diventato strumento che scatena la morte.
Occorre, allora, con coraggio, capovolgere la nostra propensione a spargere morte in un lavoro instancabile per incrementare la vita.
Lavoro per la vita quando rispetto il mistero che dimora nell’intimità delle persone che incontro. Di ogni persona. E non solo di quelle che sono secondo i miei progetti, dentro i miei schemi, le mie scelte.
Impegno per la vita vuol dire, prima di tutto, procurare ad ogni essere umano il pane quotidiano e questo è possibile solo se lo condividiamo. La soluzione del neoliberismo è moltiplicare il pane senza condividerlo. Mi viene in mente il rifiuto di Gesù a trasformare le pietre in pane. Perché? Non sono le pietre che bisogna trasformare, ma il nostro modo di porci di fronte al genere umano (soprattutto per gli occidentali, con noi italiani in prima fila, solerti nella “legislazione creativa”, ad inventarci la barbarie dei respingimenti dei disperati che bussano alla nostra porta).
Impegno per la vita significa adottare tutti i mezzi per difenderla. L’attacco alla vita è diventato così sfrenato da mettere in discussione non solo quella dei singoli, ma la sopravvivenza stessa dell’umanità.
Ecco che allora impegno per la vita significa automaticamente impegno per la pace. E qui dovremmo seriamente riflettere sulla rivendicazione delle nostre radici cristiane. Per diventare costruttori di pace, come ci viene richiesto dalle Beatitudini evangeliche, non dobbiamo aspettare che l’umanità venga a trovarsi sull’orlo della scomparsa. Se invece ascoltassimo con attenzione la Bibbia, ci accorgeremmo che lì la pace è un dono che va accolto e redistribuito.
Ma l’impegno per la vita è soprattutto lavoro costante per renderla più umana. La nostra disumanità è forse la tragedia più grande del mondo. Eliminandola renderemmo la vita più vivibile.
Come? Prima di tutto imparando a vedere negli occhi di chi si incontra quello che lo tormenta. Nella parabola di Matteo 25 Gesù non dice: “Sono stato malato e mi avete guarito”, bensì “e siete venuti a trovarmi”. Conoscere la tragedia, il dolore piccolo o grande dell’altro e condividerlo, questo è il primo contributo ad accogliere e accrescere la vita.
Impegno per la vita è prodigarsi a favorire incontri tra persone reciprocamente estraniate e lontane.
Impegno per la vita e non per la morte è, in fondo, “accorgersi” della presenza “viva” dell’altro, anche e soprattutto di chi ci sembra insignificante, marginale, inutile. E invece è una persona che ha paura di vivere, che fa fatica a camminare sulla terra perché magari è stata scaraventata ai margini della strada, una persona che soffre anche se non lo dice al primo che incontra. E devo essere io ad accorgermi che c’è anche lui o lei, a convincermi che gli basterebbe un sorriso, un buongiorno detto con sincerità per dargli di nuovo la forza di camminare o di affrontare il peso che si porta dentro.
Sono tanti i modi di assumere un impegno per la vita e non per la morte: basta deciderlo e rinnovare la dedizione giorno dopo giorno. Cambierà la qualità delle relazioni e avremo contribuito a rendere più respirabile l’atmosfera in cui trascorriamo le nostre giornate.
Impegnarci per la vita è fuggire con tutte le forze il pericolo di farla diventare una esperienza da atleti superal-lenati. Forzati a correre, senza mai indulgere a una sosta da dedicare allo stupore.
E non sarà questa una delle cause delle nostre delusioni, delle nostre insoddisfazioni, una delle cause del nostro generare morte anziché vita?
LETTERA APERTA DI FRANCUCCIO
Non perseguitate chi fa la scelta degli ultimi.
Lettera aperta a mons. Betori, vescovo di Firenze
Francesco GESUALDI, allievo di Don Lorenzo Milani
Eccellenza,
mi scuso per questa lettera aperta, ma la vicenda è pubblica e merita uno scambio allargato. Non mi intendo di diritto canonico e non so valutare se e quanto gravemente don Alessandro Santoro abbia violato il codice ecclesiastico, benedicendo le nozze di Sandra Alvino e Fortunato Talotta. Si direbbe una violazione grave, a giudicare dalla sua decisione di sospenderlo da qualsiasi incarico, ma due interrogativi mi tormentano.
Primo: perché la Chiesa si ostina a fare passare sempre cinquecento anni prima di riconoscere le evidenze scientifiche più elementari e perseguita i suoi membri più validi solo perché osano schierarsi a favore di scelte che la storia inevitabilmente indica come le più corrette? Non mi appellerò alla condanna di Galilei o del savonarola, per sottolineare come l’oscurantismo della Chiesa spesso la ponga su posizioni così insostenibili da meritare la condanna della storia e perdere la stima di un vasto numero di fedeli. Mi appellerò all’esperienza quotidiana Tutti ci sottoponiamo a cure ed interventi chirurgici, anche complessi e rischiosi, per correggere malformazioni congenite o acquisite, in ogni tipo di organo, e la Chiesa non ha niente da ridie. Anzi, se non intervenisse avrebbe parole di condanna. Sinceramente non capisco perché non debba accettare che le malformazioni sono possibili anche nella sfera genitale. Questo sembra essere il caso di Sandra.
Il secondo interrogativo è più angosciante del primo e riguarda la gerarchia di valori della Chiesa. Don Alessandro è alle Piagge dal 1994. Vi si è dedicato con tutto se stesso per ridare dignità a persone e famiglie che la società preferisce rinchiudere nei ghetti. In quindici anni ha creato scuole, luoghi di incontro e di aggregazione, esperienze di economia solidale, tale da attirare l’ammirazione di tutta Italia. Ma soprattutto, tale da ridare speranza a centinaia di famiglie che in don Alessandro hanno trovato amicizia, conforto, solidarietà. Ora, con la sua decisione di allontanare don Alessandro dalle Piagge, per loro tornerà la solitudine, l’insicurezza, l’abbandono. Davvero un articolo del codice canonico vale più dell’avvenire di centinaia di famiglie?
Sono stato allievo di don Lorenzo Milani. Anche lui subì le ritorsioni di una gerarchia ecclesiastica che non tollerava chi anteponeva la fedeltà al Vengelo alla difesa degli interessi di potere della Chiesa. Oggi la Chiesa lo carica di onorificenze, ma il modo migliore per dimostrare che si è capito la lezione di don Milani non è osannandolo, ma smettendo di perseguitare chi fa la scelta degli ultimi.
BEATITUDINI
Opuscolo secondo, parte seconda, capitolo IX
Secondo Matteo 5, 10: “Beati coloro che vengono perseguitati a causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli”.
Secondo gli Atti 14, 22: “È necessario attraversare molte tribolazioni per entrare nel regno di Dio”.
Così si chiarisce che la festa deve essere preceduta dalla veglia e nella vigilia la carne deve essere macerata per mezzo di digiuni e preghiere. Se invece la vigilia precedesse la festa, si avrebbe un ordine capovolto, quello seguito dagli uomini mondani.
Perciò il Signore disse agli Apostoli in Giovanni 16, 20: “In verità vi dico: voi piangerete e vi rattristerete, ma il mondo si rallegrerà. Sarete afflitti, ma la vostra afflizione si tramuterà in gioia”.
Essi pertanto si comporterebbero male se festeggiassero la vigilia. Il mondo fa tutto il contrario, perché celebra la vigilia dopo la festa, ma nella propria dannazione.
Perciò Amos, al capitolo 8, 10 disse: “Cambierò le vostre feste in lutto e tutti i vostri canti in lamento”.
Non abbandonate dunque la regola del Signore, ma conservatela come una zattera per il naufragio; altrimenti sarete sommersi come il piombo nell’acqua.